Cari Italians,
ho avuto lunghe conversazioni con cittadini peruviani, nel mio recente viaggio in Perù, sull'argomento coca. Nel Paese le foglie di coca si trovano al mercato con le cipolle e i ravanelli. Pare che la coltivazione della coca per il piccolo uso personale (senza pericoli per la salute e senza cadere in dipendenza da narcotico) sia ammessa. Si può bere un «mate de coca» in qualsiasi bar o albergo: ci permette di sopportare meglio «el soroche», o mal di altura. Al ristorante si trova il pane impastato e cotto con foglie di coca sminuzzate: un leggero sapore vicino alle focacce turche alle erbe e nulla più. Si trovano caramelle alla foglia di coca e hanno la stessa funzione del mate.
Ho saputo che per produrre la cocaina è indispensabile una buona dose di acido solforico e pertanto lo Stato sorveglia il commercio di tale acido. Nel tragitto tra Puno (lago Titicaca) e Arequipa ho potuto vedere decine e decine di autocarri a servizio di una miniera, gestita da una compagnia francese, da cui presumo venga estratto rame o qualcosa di simile. La cosa curiosa è che ogni autocarro portava a rimorchio una piccola botte con grande scritta acido solforico. Sarò maligno, ma mi pare che potrebbe quasi un gioco, conoscendo la propensione al guadagno puro e semplice «senza se e senza ma» delle compagnie straniere nello sfruttamento delle risorse locali, dirottare qualche cisterna di acido nelle raffinerie organizzate per la produzione di cocaina. Chiesto a un «campesino» un giudizio sulle foglie di coca, mi sono sentito rispondere: «Le foglie di coca fanno bene, si lavora meglio e passa la fame, ma l'alcol (strizzandomi l'occhio), quello sì che è buono», e mi sono sentito in colpa come i trafficanti di cattivo whisky nelle riserve indiane dell'epopea western che ben conosciamo.
Giorgio Pisetta, pisettagiorgio@virgilio.it
Corriere della Sera
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